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Il ghetto di Bologna, in pieno centro medievale, conserva, ancor oggi, la propria struttura urbanistica originaria.

La zona presenta quegli stessi paesaggi cupi, gli stretti androni e cortili dove furono rinchiusi dallo Stato della Chiesa gli ebrei di Bologna a partire dal 1556.

Vi rimasero inizialmente fino al 1569, quando furono espulsi una prima volta, e poi ancora tra il 1586, quando fu loro permesso di rientrare a Bologna, e il 1593, quando furono definitivamente cacciati: 900 persone lasciarono la città e per oltre due secoli non fu permesso a un gruppo ebraico organizzato di vivere in città.

La via dell’Inferno era l’arteria principale del ghetto, verso la quale confluiva un intreccio di stradine: via dei Giudei (un tempo via S. Marco e poi via delle due Torri), via Canonica (un tempo via Canonica S. Donato), vicolo di S. Giobbe, vicolo Mandria, via del Carro e via Valdonica. Una vasta area, dunque, chiusa da due cancelli: il primo si trovava all’imbocco di via dei Giudei; il secondo nell’attuale via Oberdan (un tempo via Cavaliera), nell’arcone che dà su vicolo Mandria attraverso l’attuale vicolo Tubertini.

In via dell’Inferno al numero 16 vi era la sinagoga. Oggi sull’edificio vi è stata collocata una lapide ricordo. La Bologna ebraica del Quattrocento era un importante centro di studi ebraici, grazie alla presenza di dotti rabbini e di tipografie dove erano stampati i libri sacri.
Dal 1525 Ovadià Sforno aveva diretto in città una scuola di studi talmudici; quanto ad Azzarià de’ Rossi, uno dei principali studiosi del XVI secolo, aveva soggiornato a lungo a Bologna. Nel 1488 all’Università cittadina era stata istituita una cattedra di ebraismo.

Nello stesso periodo avevano assunto una notevole importanza i banchi feneratizi, che operavano nell’attuale piazza delle Mercanzia. Molti dei prestatori avevano esteso la propria attività ai centri della provincia, aprendo filiali in S. Giovanni in Persiceto, Cento, Castel S: Pietro, Savigno, Budrio, Castelfranco Emilia e Crevalcore. Fiorentissimo, sia pure per breve periodo, era stato quello di Oliveto di Monteveglio, aperto nel 1393.
Ma questo clima di operosa attività andò poco alla volta deteriorandosi: nel 1417 fu imposto agli ebrei il segno distintivo, una rotella gialla sul petto, per gli uomini, e un velo giallo per le donne, lo stesso velo che dovevano portare per strada le prostitute. Fino a che, nel 1593, tutto il gruppo dovette lasciare definitivamente la città. Con la teorizzazione del ghetto da parte di papa Paolo IV (1555), nello Stato della Chiesa furono istituiti due soli ghetti dove gli ebrei potevano risiedere: Roma ed Ancona. Nel 1639, infine, papa Urbano VIII aveva ordinato che tutti gli ebrei della Legazione pontificia fossero concentrati in tre ghetti: Ferrara, Lugo e Cento. Per gli ebrei di Bologna non c’era stata scelta e molti si rifugiarono nella vicina Cento.

Torneranno a Bologna solo alla fine dell’Ottocento. Sembra, infatti, che, quando le truppe napoleoniche posarono sull’albero della Libertà le Tavole della Legge, non vivessero ebrei in città e che questo atto fosse un semplice tributo simbolico. Certamente però, nel corso dei secoli precedenti, qualche viandante ebreo era passato per Bologna, tant’è vero che esisteva un solo luogo dove poteva soggiornare: l’Osteria del Cappello Rosso (esiste ancora un albergo con questo nome: in via de’ Fusari al numero 9).

Fonte: Sito Museo Ebraico di Bologna