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Di Rav Alberto Sermoneta

Mentre Moshè, dopo quaranta giorni e quaranta notti sul Monte Sinai, riceveva le tavole della legge e si apprestava a scendere, gli israeliti avevano perso speranza di rivederlo e avevano deciso di sostituire Moshè con una statua di un vitello d’oro.

La discesa di Moshè dal Monte Sinai viene così descritta: “Moshè si dispose a scendere dal monte, recando in mano le due tavole della testimonianza, tavole scritte dai due lati, scritte sull’una e sull’altra faccia. Queste tavole erano opera divina e i caratteri incisi sulle tavole erano caratteri divini” (Shemòt, 32:15-16). Le tavole erano pesanti, ciascuna delle due tavole aveva una dimensione di un braccio per un braccio per mezzo braccio (circa 50x50x25 cm) ed insieme formavano un cubo di un braccio di lato. E quando Moshè scendendo dal monte vide il vitello e le danze “si accese il suo sdegno, gettò le tavole dalle sue mani, mandandole a pezzi ai piedi del monte (ibid., 19).

Chayìm Yosef David Azulai (Gerusalemme, 1724-1806, Livorno) in Penè David commenta che per un peccatore che si sente addolorato per il peccato che ha fatto c’è speranza, ma per colui che è lieto di averlo commesso, come in questo caso in cui ballavano attorno al vitello, non c’è speranza. Per questo Moshè sdegnato, gettò le tavole che si ruppero.

Moshè pregò per il popolo con queste parole: “Deh, o Eterno , questo popolo è colpevole di un grave peccato, si fabbricarono una divinità d’oro. Ora perdona la loro colpa, o altrimenti cancellami dal libro che hai scritto” (ibid., 33: 31-32).

L’Eterno perdonò il popolo e disse a Moshè: “Scolpisci due tavole di pietra uguali alle precedenti e Io scriverò su queste tavole le parole che erano nelle precedenti che tu hai rotto (ibid., 34:1).

Riguardo a questo versetto Rashì (Francia, 1040-1105) commenta: “Tu hai rotto le precedenti ora tu devi scolpirti delle altre”. Nel Talmud babilonese (trattato Shabbàt, 87a) è scritto che il Santo Benedetto disse a Moshè: “Yeshàr kokhakhà (gli italiani direbbero “Chazàk barùkh”) per avere rotto le tavole”. Nel trattato  Menachòt (99b) R. Shim’on ben Lakish disse: “Qualche volta annullare la Torà serve a ridarle la base” (bitulà shel Torà zehu yesodà). Moshè non solo non venne criticato per aver rotto le tavole della legge, ma addirittura venne lodato.

Barukh Halevi Epstein (Belarus, 1860-1941) in Torà Temimà cita il trattato Pesachìm (87a) dove i Maestri spiegano la ragione pe cui Moshè ruppe le tavole. Egli disse: “il sacrificio di Pèsach è una sola mitzvà e non è permesso agli idolatri di offrirlo; ora nelle tavole vi è tutta la Torà [con tutte le mitzvòt] e gli israeliti si sono comportati da apostati, a maggior ragione non è giusto che le ricevano”.

Moshè risalì sul Monte Sinai “e rimase li con l’Eterno quaranta giorni e quaranta notti...” (ibid., 34:27

Moshè Feinstein (Belarus, 1895-1986, New York) in Daràsh Moshè (ed. inglese, p. 149) si domanda per quale motivo Moshè dovette rimanere per la seconda volta per quaranta giorni sul Monte Sinai per ricevere le seconde tavole. Nei primi quaranta giorni sul Monte Sinai Moshè aveva già imparato tutta la Torà. E quindi che bisogno c’era di passare altri quaranta giorni sul monte?  R. Feinstein suggerisce che Moshè aveva imparato tutta la Torà prima del peccato del vitello d’oro quando gli israeliti erano in stato di purità e di kedushà dopo aver ricevuto la Torà al Sinai. Ora, dopo aver commesso il peccato del vitello d’oro ed essere caduti in basso, Moshè non doveva solo ripassare quello che aveva imparato, ma doveva ristudiare il tutto con maggiore intensità e forza per essere in grado di guidare una generazione che aveva peccato. Forse è per questo motivo che la Torà afferma che Noach (Noè) era giusto perfino nella sua generazione di gente perversa. Infatti per fare il leader di una generazione di peccatori e avere influenza su di loro è necessario un sforzo molto maggiore.