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Di Rav Alberto Sermoneta

Shabbat zakhor

La parashà di Tezzavvè, contiene una serie di regole per la creazione degli abiti sacerdotali.

Essa comincia con le parole: “…e ti rechino dell’olio di oliva puro, vergine, per illuminare un lume eterno”.
Di qui nasce una serie di mizvot, la prima delle quali  è quella di mantenere un lume  perennemente acceso.  Segue quella relativa alla scelta dell’olio, che doveva essere ricavato dalla leggera pigiatura delle olive – cioè quell’olio che usciva per primo dalle olive, senza che queste fossero troppo pigiate; ed infine la terza ed ultima, raccomanda che l’olio debba essere talmente puro da risultare trasparente.
Quest’ultima mizvà rappresentava  in modo figurato la casta sacerdotale, che così come  riusciva a distinguersi per la sua bellezza esteriore con l’abbigliamento, allo stesso modo doveva rispecchiare la purezza interna.
Gli abiti dei Cohanim, erano vari e molteplici, quindi quelli del Cohen gadol – il Sommo Sacerdote erano ancora di più e simboleggiavano il suo alto ruolo in mezzo al popolo.
Egli, secondo anche ciò che ci raccontano i Maestri della Mishnà, doveva essere ricco, bello d’aspetto e soprattutto colto, tanto da incutere rispetto da parte del popolo.
I suoi abiti dovevano avere in fondo al bordo dei campanelli, in modo che si udisse anche da lontano il suo camminare ed il suo avvicinarsi al popolo, che al suo passaggio doveva  fare ala.
Egli doveva tenere una certa distanza con il popolo, per non incombere in casi di impurità, che lo avrebbero invalidato dal suo servizio.
Il suo pettorale conteneva  dodici pietre, che rappresentavano le dodici tribù di Israele;  egli lo indossava sempre, come simbolo che sulle sue spalle e sul suo cuore gravava il peso della conduzione di tutto il popolo.
Tutti questi abiti, sia del Cohen gadol che degli altri Cohanim, furono presi come bottino di guerra da Nabucodonosor, quando distrusse il primo Tempio di Gerusalemme.
Si narra nel midrash che Achashverosh, pronipote di Ciro il Grande, re di Persia,  (protagonista della storia di Purim), indossasse proprio come abiti regali quelli del Cohen gadol.
Questo shabbat, coincide  quasi sempre con il sabato che precede la festa di Purim, ed è chiamato Shabbat zakhor.
Purim è la festa delle sorti, e la Storia di Purim è  nota a tutti noi, ma vorrei esplicitare alcune analogie caso tra la parashà e la festa di Purim. La parashà, si apre “ e tu comanda ai figli di Israel….” ; chi è che deve comandare? A chi è rivolto questo discorso? Il soggetto della prima frase è nascosto.
La risposta è ovvia; il comando è rivolto a Mosè; è lui che di solito per ordine divino insegna al popolo ciò che il Signore comanda di fare.
Se però è ovvia la risposta che si tratti di Mosè, non altrettanto ovvio è il motivo dell’omissione del suo nome.
La figura di Moshè Rabbenu, l’immagine del Maestro di tutto il popolo di Israele viene oscurata, o per lo meno viene messa in secondo piano  in tutta la  parashà.
Nella storia di Purim, narrataci dalla meghillà, un personaggio nasconde la sua vera identità; è per questo motivo che il popolo si trova a correre il rischio di essere sterminato.
E’ Ester che, nascondendo la sua identità di ebrea, mette a repentaglio la vita di tutto il popolo; piuttosto che rinunciare al concorso di bellezza per divenire regina di Persia, rinuncia alle sue origini, cambierà anche dietro consiglio di Mordekhai, il suo nome Hadassà, con un nome allora pagano Ester.
In ebraico la parola “ester” significa nascondere, poiché ella nascose la sua vera identità di ebrea.
Il nome di Mosè, non compare mai in tutta la parashà di tezzavvè, così come in tutta la meghillà di Ester, non compare mai il nome di D-o.
D-o nasconde il Suo volto quando il popolo lo dimentica o si comporta in modo ambiguo, nascondendo la propria vera identità di ebrei.
Se il nome di Mosè viene omesso in tutta la parashà per un motivo di umiltà,  e cioè per non sminuire  Ahron, suo fratello maggiore, protagonista di questa parashà, Ester agisce invece per velleità, poiché teneva ad essere la regina del regno di Achashverosh.
Iddio si mette da parte nella Meghillà, perché vuole vedere fino a quanto l’uomo, attraverso il suo orgoglio, riesce a non rivolgersi mai al Signore.
La vera identità verrà svelata invece , quando nel momento del pericolo, grazie alla teshuvà di Mordekhai ed Ester si indirà un digiuno per chiedere a D-o perdono e  salvezza.
Allora tutte le cose  ritorneranno al loro posto e anche D-o ritornerà in mezzo al popolo portandogli la salvezza.
Il miracolo di Purim, non è tanto quello di aver ritrovato la vita, dopo un momento di terrore del genocidio, quanto quello di aver ritrovato, da parte del popolo ebraico  la fiducia in D-o e la consapevolezza che soltanto Lui riesce a far sì che l’ordine torni a regnare  portando quindi anche  la salvezza.

Shabbat shalom e buon Purim